L’atmosfera di un Villaggio

Villaggio Matteotti: una visita in questo quartiere dà conto, oggi, di un’opera ben riuscita. Nonostante la complessità della sua storia, la configurazione architettonica del quartiere resiste egregiamente al confronto con il tempo. Le condizioni di conservazione materiale, pur non eccellenti, consentono ancora di apprezzare il carattere architettonico e le qualità formali del complesso. Ma il vero metro di successo del Nuovo Matteotti si evince dalle tracce di uso e appropriazione, prova inconfutabile che la dimensione esistenziale dei residenti ha qui trovato il giusto spazio, trasformando l’architettura in un luogo domestico.

Con il primo cinquantennio di vita, condurre una post-occupancy evaluation del Villaggio Matteotti richiede l’apertura dell’indagine a strumenti che esulino dal più circoscritto ambito dell’architettura. Il quartiere ha assunto ormai una dimensione storicizzata: possiede un passato in termini di persone che qui sono arrivate e hanno addomesticato gli edifici freschi di cantiere, e di altre che invece qui sono nate e hanno riconosciuto negli spazi del Matteotti la loro primigenia dimensione abitativa. Tutti questi individui hanno agito modificando la struttura del complesso, producendo, lentamente, una fitta rete di tracce, quasi di “sintomi” di come il Villaggio sia diventato uno spazio vissuto.
Osservare questo tipo di dinamiche costituisce un avvicinamento all’architettura di De Carlo che, possiamo presumere, lui stesso avrebbe condiviso. Lo sguardo decarliano si è sempre rivolto ai processi che consentono allo spazio della città di prendere forma attraverso la partecipazione di una molteplicità di soggetti. L’architettura continua a modificarsi sia attraverso le normali pratiche di adattamento e appropriazione messe in atto dagli occupanti, sia per via di una modulazione della dimensione degli affetti, quella che in maniera non del tutto dicibile combina i corpi architettonici con quelli degli abitanti e dei visitatori.
La domanda che dunque intendiamo porci è relativa a queste dinamiche: nell’osservare il Matteotti oggi, quali fenomeni di risonanza siamo in grado di registrare? Esistono tracce dell’uso e dell’appropriazione che ci consentono di comprendere – a livello più profondo rispetto ad una semplice descrizione dei fatti materiali – quali siano i risvolti delle scelte compiute nell’articolato processo di progettazione e realizzazione del quartiere?

Partecipare allo spazio

Il tema della partecipazione trova la sua più compiuta implementazione proprio nel Villaggio Matteotti. Il processo attraverso il quale i futuri abitanti intervengono nella definizione del quartiere viene accuratamente documentato come forma non autoritaria e antigerarchica di progettazione collaborativa. In un gioco di ribaltamenti e scambi di posizione, si tratta di far sì che l’architettura “sia sempre meno la rappresentazione di chi la progetta e sempre più la rappresentazione di chi la usa”. Tuttavia, anche la più superficiale osservazione delle architetture di De Carlo rivela come tale concetto, oltreché processuale, diventi anche una forma spaziale. Abitare le architetture di De Carlo significa avere la possibilità di partecipare appieno dello spazio, in una condizione che libera il soggetto dalle separazioni imposte dalle strutture di potere convenzionali.
A questi due livelli di partecipazione, se ne può sommare un terzo, ravvisabile forse in trasparenza nel pensiero di De Carlo. “Partecipare” può significare prendere parte a stati affettivi comuni, la cui dinamica si svolge spazialmente. Se le prime due accezioni di questo termine chiave della teoria decarliana sono state più volte approfondite, questo terzo modo di intenderlo, particolarmente rilevante nella teoria sociale contemporanea, merita invece ancora di essere esplorato.
“Partecipare” implica il prendere parte a qualcosa che è in comune fra più soggetti, o anche fra individui o comunità e l’ambiente fisico che li ospita. Quando De Carlo parla di “spazio”, si riferisce chiaramente a quello fisico: è però evidente quanto la sua consapevolezza del legame profondo tra lo spazio e le comunità che lo abitano influenzi le sue pratiche progettuali, nonché l’articolato processo entro cui le inserisce. La partecipazione, dunque, ha essa stessa una dimensione affettiva e spaziale.
Proprio in quest’ambito, gli ultimi anni hanno visto un fiorire trasversale di studi volti a indagare come gli individui abitino lo spazio insieme, divenendo così comunità. Nello specifico, le scienze sociali esplorano la dimensione politica dell’ambiente costruito, le relazioni di forza e conflittualità fra diversi soggetti e gruppi, una derivata prima delle teorie urbane giunte a maturazione sul finire degli anni Sessanta.
Possiamo dunque avallare l’ipotesi che nel Villaggio Matteotti il processo partecipativo innescato da De Carlo con la progettazione non si sia, di fatto, ancora esaurito, ma continui a plasmare nel tempo le emozioni condivise dalla comunità degli abitanti del quartiere e anche, occasionalmente, di chi va a visitarlo.
Per un caso come il Villaggio Matteotti, questa concezione di spazio è capace di restituire la densità e complessità di quanto si registra nel quartiere, la particolare atmosfera che colpisce il visitatore. Qui la partecipazione assume un carattere performativo: gli abitanti agiscono e “prendono parte” allo spazio comunicativo, dove “mettono in comune”, nel quadro di una cultura condivisa e pratiche consolidate, il loro agire, le corporeità, in una partecipazione che è anche affettiva. In che modo, dunque, l’architettura concepita da De Carlo produce quest’articolazione di spazio comunicativo?

Sguardi, gesti, movimenti

In De Carlo, l’indagine compositiva non si arresta mai a delle forme perfette, bensì mira a realizzare sistemi fortemente articolati, solidamente ancorati all’ambiente circostante e capaci, già per la loro configurazione morfologica, di produrre movimento. La qualità di questo movimento è ben distinta rispetto all’accezione modernista della promenade architecturale: nello spostarsi da un punto all’altro dell’edificio (o dello spazio urbano) lo scopo non è tanto l’ottenimento del “piacere visivo” derivante dalla contemplazione dell’architettura stessa, quanto semmai la possibilità di incontro, di interazione, di partecipazione ad una comune vita che si svolge entro l’orizzonte abitato.

Muoversi nello spazio urbano implica l’avventurarsi in una sequenza di viste che si celano e disvelano, prospettive deliberatamente inquadrate dalla costruzione architettonica come altre di natura più incidentale, che insieme producono una varietà pittoresca di scorci. Soprattutto, significa una visione non simultanea, dove l’insieme non risulta mai completamente percettivamente accessibile, e la conoscenza sintetica dell’oggetto architettonico richiede la paziente attività di un esploratore, di cui l’edificio stimola continuamente la curiosità.

I percorsi pedonali aerei del quartiere, ad esempio, non solo ne caratterizzano le modalità di attraversamento, ma costituiscono ciò che la psicologia ecologica definisce affordance – delle “offerte” di uso e movimento che un ambiente propone come stimolo saliente all’organismo che lo abita. Vedere la passerella, dunque, non si limita ad essere un suggerimento visivo: è anche un invito all’azione, al movimento e all’esplorazione. Lo stesso vale per i numerosi diverticoli della complessa struttura morfologica del Villaggio: dalle scale di accesso agli alloggi, che “scavano” in profondità il volume edilizio, ai passaggi coperti dislocati a varie quote, ai porticati destinati a ospitare i servizi commerciali.
Nell’architettura di De Carlo muoversi significa dunque vedere, ma chiaramente anche essere visti. La proporzione tra i fronti costruiti e le strade pedonali che questi definiscono ribadisce un tipo di relazione metrica che si può consuetamente incontrare nel tessuto urbano denso, come ad esempio nella città storica. Dalle finestre delle abitazioni è dunque quanto mai naturale affacciarsi su tali ambiti aperti, che divengono così “popolati” di sguardi, tanto quanto lo può essere il corso di un borgo medievale. Qui la densità di eventi spaziali risponde ad una concezione urbana consona con un “habitat tradizionale”. Densità in termini di traffici e potenziali interazioni, di sguardi e, di conseguenza, di emozioni spazializzate. Lo sguardo, infatti, non è da considerarsi “neutralmente”, nella diade materialista vedere/non vedere: ben di più, diviene uno dei principali motori affettivi, capace di stabilire un solido nesso con la risposta emotiva che il soggetto avverte corporeamente.

La vista non va considerata, come è stato descritto in merito a questo complesso, come semplice vettore visivo del soggetto intento a percorrerne i tragitti pedonali, bensì secondo un principio di reciprocità non simmetrica. Chi cammina nel Villaggio può avvertire la presenza (anche solo potenziale) di sguardi alle finestre e sulle terrazze: una rete invisibile che impone il controllo su chi transita e su quanto accade fra le abitazioni. Al contrario – e in questo emerge il carattere asimmetrico dello sguardo – chi, affacciandosi non visto ad una finestra può operare tale controllo, si sentirà protetto potendo guardare senza essere a sua volta visto. Si tratta di una dinamica comune nella città tradizionale, dove la densità edilizia impone distanze ravvicinate e l’occasione di frequenti incontri con lo sguardo altrui, mentre è assai più rara nella città modernista, dove lo sguardo viene “sterilizzato” dalla bassa densità.

Manipolazioni affettive

La storia dell’edilizia residenziale pubblica italiana ci racconta come tutti i quartieri progettati, una volta inaugurati e occupati dagli assegnatari, abbiano iniziato un processo di trasformazione e invecchiamento. L’arrivo degli abitanti modifica l’aspetto dell’architettura, introducendo alterazioni incrementali, accumulantesi nel tempo, espressione di pratiche di “appaesamento”.
Altrettanto scontato è come la vegetazione che occupa gli spazi comuni, piantumata a conclusione del cantiere, cresca “addolcendo” l’aspetto talvolta aspro di alcune architetture [FIG. 8]. Non è quindi insolito il fatto che queste alterazioni progressive avvengano, quanto semmai il modo in cui l’architettura originale viene elaborata dagli abitanti: in questo il quartiere progettato da De Carlo si colloca in una ridotta schiera di casi che sono riusciti ad acquisire quell’atmosfera di domesticità pur senza perdere le proprie intrinseche qualità architettoniche.
Le alterazioni che gli abitanti hanno apportato al quartiere evidenziano la necessità di modulare e controllare la rete di sguardi intrecciati fra lo spazio pubblico dei percorsi pedonali e l’interno delle abitazioni. Essere “colpiti” da uno sguardo – soprattutto da uno sguardo estraneo – costringe il soggetto che viene visto ad una contrazione spontanea, quasi una forma di protezione rispetto ad una potenziale minaccia, per quanto solo ottica. La manipolazione dell’ambiente operata dagli abitanti – l’introduzione di schermi, recinzioni, piantumazioni o altri diaframmi visivi – serve proprio a contrastare l’indesiderato sopravvenire di questi affetti, a prevenirli tenendoli “alla larga”.
Questa dinamica di manipolazione dell’ambiente sembra tuttavia avere, al Villaggio Matteotti, un segno prevalentemente opposto. Le azioni spontanee operate dagli abitanti non appaiono come volte ad arginare delle atmosfere minacciose, bensì ad accoglierne di positive. Numerose tracce puntano in questa direzione: la cura posta nei giardini privati e nelle terrazze affacciate sui percorsi pedonali centrali è sì indicativa di un legame con la propria abitazione, ma contribuisce anche alla notevole vegetalizzazione dello spazio comune. Questa cura non appare mirata a neutralizzare le qualità perturbanti del mondo, quanto semmai di rafforzare un sentimento condiviso di comunità e appartenenza.
Nella tensione costante tra condivisione e separazione che fonda la natura dello spazio collettivo, la struttura architettonica del Villaggio Matteotti produce dunque una condizione di notevole ricchezza: né l’atomistico anonimato della residenza “di massa”, né tantomeno la commistione caotica e incontrollata della città preindustriale. Recuperando un modello spaziale tipico della città tradizionale – senza per questo scivolare in alcuna concessione stilistica – De Carlo raggiunge un ragguardevole punto di equilibrio tra privato e collettivo, interno ed esterno, chiuso ed aperto: ne sono testimonianza – oltre all’osservazione diretta – proprio le tracce della vita degli abitanti e il modo in cui la struttura architettonica è stata “conquistata” all’uso della quotidianità e della domesticità.

La città delle emozioni collettive

Possiamo concludere con un interrogativo. Sarebbe stato possibile questo stesso esito senza il processo partecipativo originario? In che modo e in che misura la dinamica sociale risalente a più di mezzo secolo fa influenza, ancora oggi, la qualità dell’ambiente urbano del complesso?
Di certo il processo partecipativo ha condotto gli abitanti verso la costruzione di una forma sociale comunitaria prima ancora della realizzazione del quartiere – benché questa socializzazione possa aver compreso anche livelli più o meno espliciti di conflittualità.
Ma ciò che in ultima istanza possiamo osservare è che l’atmosfera del Villaggio, a mezzo secolo dalla sua inaugurazione, è certamente quella di un luogo vitale, dove chi abita può effettivamente sentirsi a casa, e dove l’anonimato di molti quartieri residenziali coevi è del tutto assente. Se il “senso di comunità” è un’atmosfera affettiva condivisa che si può avvertire, se ne riscontra ben più qui che in molti altri complessi residenziali, ma anche rispetto a molti centri storici consumati dalla gentrificazione o dall’iperturismo. E ciò che a ogni buon conto funge da collante per questa comunità sono proprio le emozioni collettive, germinate nel processo di partecipazione sotto la guida di De Carlo e cresciute poi nel terreno di coltura di uno spazio architettonico congegnato in maniera tale da poterle ospitare.

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