Eredità, patrimonio: termini ampi che coprono una vasta gamma di significati, moltiplicando le sfumature passando da una cultura all’altra. Sono anche legati al contesto: persino in un singolo ambito culturale, possono mutare nel passaggio da una città all’altra. Prendiamo come caso L’Aquila: se il 2019 marca il decennale del devastante terremoto del 6 aprile, come potrebbe essere inteso il senso della sua eredità? In che modo si sovrappone con quanto questo significa in altre città italiane, che non hanno vissuto lo stesso trauma? In che modo tale eredità può essere resa produttiva, per immaginare e creare la futura urbanità dell’Aquila?
Che lo si voglia o meno, il trauma della distruzione è parte integrante dell’eredità dell’Aquila. Per coloro che hanno vissuto in prima persona il terremoto e le sue dirette conseguenze, affrontare tali ripercussioni diventa il compito che può definire un’esistenza, ancor di più per chi ha subito la perdita di persone vicine. Le conseguenze si estendono nel tempo attraversando le generazioni, in modi che sono difficili da misurare ma che richiederanno un tempo di guarigione che non può concludersi nell’arco di una singola vita umana (Prager, 2003). Inoltre, le tracce della distruzione rimarranno visibili nel corpo fisico della città anche una volta completata la ricostruzione.
Oggi ci sono pochi indizi che questa parte dolorosa dell’eredità urbana dell’Aquila venga affrontata: il lutto sembra trovarsi nella fase di negazione. Questo non significa che gli eventi del 2009 e della successiva ricostruzione siano assenti dal dibattito pubblico, né dalle intenzioni espresse – sia dai singoli sia a livello pubblico – per il futuro della città: ma se limitiamo la nostra osservazione a quell’espressione primaria della cultura che è la città, ciò che colpisce in maniera più drastica è la quasi totale assenza di un posizionamento critico capace di distinguere le cose e i fenomeni, elaborando e interpretando l’eredità del terremoto attraverso lo spazio urbano. L’unico impulso che appare manifestarsi attraverso la moltitudine di cantieri è quello di ripristinare i monumenti, applicare strati freschi di intonaco sulle pareti di vecchi edifici e rivitalizzare simboli urbani, per giungere ad una condizione quanto più vicina a quella in cui la città si trovava prima del terremoto, come se nulla fosse accaduto (De Matteis, 2019). Questa modalità di ricostruzione non è insolita, e in altri contesti è stata assimilata ad una forma più o meno intenzionale di amnesia (Nagle, 2017).
I sintomi di questi impulsi all’oblio possono essere rintracciati nell’apparente ritrosia all’apertura di un dibattito pubblico intorno all’idea di un memoriale per le vittime del terremoto. Due concorsi di progettazione hanno proposto interventi per aree vicine: uno – riservato agli studenti universitari (Giancola, 2019) – per il sito dove un tempo sorgeva lo studentato, crollato la notte del terremoto uccidendo otto giovani; il secondo, per un sito commemorativo nel parco della Villa Comunale, che ha dato risultati a dir poco desolanti (Fig. 1). Questo secondo concorso – risalente ormai al 2013 – ha incontrato non poche resistenze (Perfetto, 2018), tanto che il cantiere per la realizzazione di una versione ampiamente ridimensionata del progetto è stato aperto solo negli ultimi giorni.

La mancanza di un processo partecipato e condiviso non ha certo giovato al recepimento ed accettazione di un progetto apparsi a molto controverso, sia per le forme espressive adottate, sia per la sua localizzazione. Come spesso accade, emerge una difficoltà intrinseca nel cristallizzare una narrazione degli eventi traumatici che sia valida per tutti, e molti temono che L’Aquila non avrà mai un «luogo pubblico della memoria collettiva, un “Ground zero” che ricordi tutti e a tutti» (Andreucci, 2019). È opportuno ricordare che la realizzazione del Memoriale dei caduti in Vietnam di Maya Lin, è stato possibile solo grazie all’incessante azione di Jan Scruggs, veterano e attivista che ha impedito che il progetto della giovane architetta fosse sostituito da uno ben più “eroico” voluto dalle alte sfere di Washington (Lineham, 2019). Nel caso di un memoriale non è sufficiente, dunque, disporre di un progetto, per cattivo o buono che sia: è necessario che la comunità lo “adotti”, per evitare che un monumento giudicato controverso finisca per essere rigettato, non ricordando più nulla a nessuno. Forse L’Aquila, più che di una modesta fontana circondata da panchine e intrisa di una retorica simbolica obsoleta avrebbe bisogno di un memoriale diffuso: l’intera città, dal suo centro alla vasta periferia, fino alle frazioni satellite, dovrebbero diventare luoghi memoriali, attraverso una costellazione di oggetti sparsi, capaci di rimandare ai micro-eventi accaduti in tutto il territorio del cratere.
Una frase ripetuta all’infinito nei giorni delle celebrazioni recitava: la ricostruzione fisica è andata molto avanti, ma finora non c’è stata la ricostruzione sociale. Di fatto, il centro storico parzialmente ricostruito è ancora quasi vuoto, dato che solo una parte delle attività e una percentuale ancora minore dei residenti sono tornati ad occuparlo. Se da un lato ogni settimana riapra nel centro un nuovo negozio, un ufficio postale o un ristorante, portando una certa vitalità durante il giorno, la sera o al mattino presto le strade sono completamente deserte, dato che quasi nessuno risiede nei palazzi accuratamente restaurati. La macchina della ricostruzione non è stata sostenuta da adeguate politiche capaci di riattivare in maniera organica la vitalità del centro: tuttavia, si potrebbe anche affermare che la ricostruzione è compiuta solo per metà, e che un decennio è un arco temporale troppo limitato per vedere il compimento di un processo tanto ampio e complesso.
Inoltre, ci si potrebbe domandare se la difficoltà di far risorgere il centro dalle sue ceneri sia causata dagli effetti perduranti dal terremoto, o dalla logica stessa della ricostruzione. In un piccolo libro pubblicato appena due anni dopo il sisma, Renato Rizzi (2011) pone un dilemma radicale, sostenendo che di fatto L’Aquila ha subito due forme separate – eppure interconnesse – di distruzione. Quella più evidente risiede nella violenza visibile dell’evento, mentre la seconda è implicita nella violenza latente della nostra cultura tecnico-scientifica, che agisce perpetuamente nella dissoluzione del paesaggio nell’area vasta della città. Non è una tesi da ignorare, considerando il modo in cui L’Aquila è cresciuta negli anni dal secondo dopoguerra: mentre il terremoto è imprevedibile e improvviso, la seconda forma di distruzione è prevedibile e si articola nel tempo. La risposta emergenziale alla prima violenza si innesta sulla seconda, esacerbando l’estensione e la profondità dell’azione distruttiva.
Nonostante il tono apocalittico dello scritto di Rizzi, è difficile negare che già nel 2011 egli avesse anticipato alcune dinamiche che avrebbero effettivamente preso piede. Mentre il centro monumentale giaceva prima distrutto, poi in una forma di “standby” continuativo nel corso della ricostruzione, L’Aquila è cresciuta oltre i suoi confini, estendendo una logica urbana le cui ragioni profonde non hanno nulla a che vedere con quanto accaduto la notte del 6 aprile 2009. Persino le decisioni prese nei primi giorni dopo l’evento, basate su motivi puramente logistici e un modello organizzativo militare, puntavano tutte verso un movimento centrifugo dell’urbanizzazione, su base non necessariamente temporanea. I 19 quartieri residenziali C.A.S.E. (Turino, 2010), fortemente voluti dal Governo all’indomani del terremoto, sono un evidente esempio della “suburbanizzazione istantanea” che ha colpito L’Aquila (Fig. 2). Molti degli interventi realizzati non sono stati concepiti per essere reversibili, e l’attuale mancanza di attrattività del centro storico può essere almeno in parte imputata alla struttura urbana della città estesa. Tutto questo è avvenuto in nome dell’emergenza post-terremoto, un altro aspetto dell’eredità traumatica dell’evento. Al di fuori delle eleganti strade storiche, oggi ricostruite, giace una scialba città orizzontale a bassa densità, fortemente congestionata, in cui la mancanza di pianificazione è stata ulteriormente esasperata negli anni successivi al terremoto. Non è questa dunque una forma di distruzione tanto lenta quanto violenta?

La ricostruzione dell’Aquila ha molti detrattori, ma anche molti sostenitori, che sostengono che giungere all’attuale risultato gestendo fondi, coordinando centinaia di cantieri mentre la città continuava a vivere è stato uno sforzo quasi sovraumano, che ha richiesto un continuo dribbling attraverso le maglie di una burocrazia labirintica. La qualità degli interventi, dunque, è la migliore che si potesse ottenere in queste circostanze. Se in altre città colpite dai terremoti – una fra tutte Amatrice – la quasi totale demolizione delle rovine è stata ritenuta la strada più praticabile, lasciando solo una tabula rasa (Fig. 3), L’Aquila è ancora lì, teatro almeno potenziale del ritorno della vitalità urbana entro le sue mura cittadine.

Di certo il post-terremoto ha dato vita ad una grande ondata di attivismo partecipato, con molti gruppi e comunità intenti a reclamare il loro “diritto alla città”. Sul piano tecnico L’Aquila è divenuta un laboratorio per lo sviluppo e la sperimentazione di soluzioni innovative per il restauro e il retrofit strutturale dell’edilizia storica, la sicurezza e l’implementazione di tecnologie digitali nei contesti consolidati (Di Ludovico et al, 2014). La risposta alla catastrofe, l’unica che in anni recenti ha colpito un centro urbano con una certa popolazione nonché capoluogo regionale, ha richiesto la formulazione di nuovi standard per le capacità operative di risposta agli eventi sismici. Almeno sulla carta, il terremoto del 2009 ha dato all’Aquila l’opportunità di diventare una città più resiliente e innovativa.
Se la ricostruzione è compiuta soltanto a metà, è dunque necessario sospendere qualsiasi giudizio conclusivo sui suoi risultati. Anche il processo di rinnovamento dell’Aquila forgerà la sua eredità futura, condensando in un arco temporale limitato dinamiche che si estendono di norma in periodi ben più ampi. Una volta finita l’emergenza e chiusi i cantieri, in che modo nuove politiche e nuovi progetti saranno in grado di mostrare un approccio più riflessivo nei confronti sia di ciò che è stato, sia di una futura visione della città?
Non sembra esserci una risposta semplice, non a causa della mancanza di strumenti teorici o capacità creative, bensì per il fatto che ogni decisione, anche la più ordinaria, rimane spesso impaludata in un processo che finisce per annegare gli strati più profondi di pensiero. Inoltre, nessuna ricostruzione, in quanto processo pienamente politico, metterà mai d’accordo tutti: tuttavia, la sensazione attuale è che alcune esigenze non abbiano trovato risposta, soprattutto quelle legate ad una sfera affettiva che non si rispecchia nelle azioni basate su considerazioni misurabili, di natura pragmatica o economica. Forse la stessa questione della memoria non può essere più aggirata, e va affrontata in una maniera tale da non nasconderla dietro al velo di una ricostruzione frenetica e spesso irriflessiva, assicurando un debito tempo e spazio per la discussione.
In che modo, dunque, potrà manifestarsi nello spazio urbano questa eredità traumatica dell’Aquila, portando a compimento il lutto di ciò che era e non è più, incluse le vite umane e l’estinta vitalità del centro storico? Un’immagine ricorrente è quella del kintsugi, antica pratica giapponese di restaurare gli oggetti in ceramica danneggiati con inserti in oro, mostrando l’originale insieme ai segni delle fratture, che vengono in qualche modo valorizzate dalla presenza del metallo prezioso (Fig. 4) (Sofo, 2018). Un’immagine affascinante, forse però difficile da contestualizzare in una realtà dei fatti dove la “cancellazione” dei segni sembra essere la scelta privilegiata, e si intende evocare la memoria tramite alcuni superficiali oggetti metaforici– esattamente quanto avvenuto nel progetto vincitore del Parco della memoria.

Per portare a conclusione l’elaborazione del lutto della città, l’eredità scossa dell’Aquila ha bisogno di essere accettata e incorporata nelle sue forme future, non ripulita né rimossa tramite oggetti architettonici immacolati ma privi di vita. Non è questo che sentono gli abitanti: la loro affettività scossa è destinata a perdurare, mutando nel tempo in una forma più gentile di memoria malinconica, ma non in oblio. La loro futura città dovrebbe diventare uno specchio – uno specchio gentile – del lento riemergere di una vita profonda.
* Paper presentato al convegno REDS Legacy, Università della Basilicata, Matera, 14 novembre 2019
Bibliografia
- Andreucci, Antonio. “La Memoria Collettiva e Il Luogo Mancante.” Il Centro, 4/4/2019.
- De Matteis, Federico. “On the Natural History of Reconstruction. The Affective Space of Post-Earthquake Landscapes.” Studi Di Estetica, IV, 47, no. 14 (2019): 65–87.
- Di Ludovico, Donato, Pierluigi Properzi, and Fabio Graziosi. “From a Smart City to a Smart Up-Country. The New City-Territory of L’Aquila.” Tema. Journal of Land Use Mobility and Environment (2014): 354–64.
- Giancola, Francesco (ed.) Tra Memoria e Futuro : Concorso di idee per la Casa dello Studente a L’Aquila. Canterano: Aracne, 2019.
- Lineham, Adam. “I Watched Friends Die in Afghanistan. The Guilt Has Nearly Killed Me.” The New York Times Magazine, 11/11/2019.
- Nagle, John. “Ghosts, Memory, and the Right to the Divided City: Resisting Amnesia in Beirut City Centre.” Antipode, 49, no. 1 (2017): 149–68.
- Perfetto, Vittorio. “«È Un Parco Della Memoria Senza Vita».” Il Centro, 22/7/2018.
- Prager, Jeffrey. “Lost Childhood, Lost Generations: The Intergenerational Transmission of Trauma.” Journal of Human Rights, 2, no. 2 (2003): 173–81.
- Rizzi, Renato. L’Aquila : S(c)isma dell’immagine. Milano: Mimesis, 2011.
- Sofo, Giuseppe. “Tradurre La Città Tradita.” De Genere, no. 4 (2018): 154–63.
- Turino, Roberto (ed.) L’Aquila : Il Progetto C.A.S.E. Pavia: Iuss Press, 2010.