Villaggio Matteotti: una visita in questo quartiere dà conto, oggi, di un’opera ben riuscita. Nonostante la complessità della sua storia, la configurazione architettonica del quartiere resiste egregiamente al confronto con il tempo. Le condizioni di conservazione materiale, pur non eccellenti, consentono ancora di apprezzare il carattere architettonico e le qualità formali del complesso. Ma il vero metro di successo del Nuovo Matteotti si evince dalle tracce di uso e appropriazione, prova inconfutabile che la dimensione esistenziale dei residenti ha qui trovato il giusto spazio, trasformando l’architettura in un luogo domestico.
Come si fa ad “entrare in contatto” con l’architettura, che è certamente un fatto più complesso di quanto non si possa immaginare con un rapido sguardo superficiale? Come si fa, al di là delle sole questioni tecniche, a prefigurarne gli spazi, gli effetti? Perché ci affezioniamo ad alcuni luoghi, più che ad altri? Perché, quando entriamo in certi spazi, spontaneamente abbassiamo il tono della voce? Perché stiamo alla larga da alcune strade delle nostre città? Perché ogni tanto capita di avere, anche dentro casa nostra, delle sensazioni strane, quasi da sentire un brivido freddo correre lungo la schiena? Perché in alcuni luoghi torniamo con grande piacere, in altri invece non vorremmo mai più mettere piede? Perché nella memoria alcuni spazi che abbiamo vissuto nel passato rimangono incisi più profondamente di altri? Perché alcune architetture – o persino delle immagini di architetture – possono suscitare emozioni distinte ed intense, come la malinconia del cimitero di Modena nella famosa fotografia di Ghirri?
Alcuni giorni fa, quasi per caso, sono passato per Campo Felice, stazione sciistica intorno ai 2000 m s.l.m. che si trova nel territorio del Monte Velino, appena fuori L’Aquila. Campo Felice, da sempre promossa con lo slogan “un mare di sole e di neve”, è un luogo amato anche dai romani, dato che in poco più di un’ora di automobile dalla capitale ci si trova su piste che, pur non essendo all’altezza di quelle alpine, offrono un debito svago sciistico.
The sequence I’m about to show comes from one of the spin-off movies of the Harry Potter saga. I’m not a big fan of Harry Potter, but in this case, I feel there is something worth observing.
Ever since when I first watched this film, I have had the feeling that this gigantic, ominous and dark CGI creature can be a useful visual metaphor to conceptualize the spatial dynamics of affect. Emotions, as is today broadly understood across various fields of knowledge, are not the private, inner affairs of subjects, but rather spatialized forces that can “jump” from one subject to the other, capturing them and influencing their individual affective states. While they do “extend” into the ambient environment, emotions lack a precise geometrical definition, as the Harry Potter monster quite strikingly shows us. The spatial nature of emotions is not restricted to “destructive” affects such as hate or fear, but the purely incidental quality of this monster, its reckless violence and uncontrollability, creates an interesting conceptual bridge to the strong affective resonance we may encounter and experience in protests. We are observing something that resembles, albeit in a metaphorical way, that equally strange “creature” that was Sigfried Kracauer’s “revolting mass,” as he often encountered in the streets of Berlin in the years that would lead up to the rise of Nazism.1 In this short presentation, I will thus address three distinct issues: firstly, I will review some of the many theories postulating the externality of emotions, plotting how this spatial dimension unfolds within the urban environment; secondly, I will clarify how protest, as a specific urban practice, fully harnesses this spatial dimension to sustain its deployment; finally, I will discuss how a form of landscape – something akin to what has been so far here thematized as a landscape of protest – represents an emergent condition that is fueled by the interplay between urban space and human action.
Per capire, era necessario camminare. Lo spazio del terremoto non si vede da lontano, non si vede dall’alto: si avverte solamente quando lo si incontra, in una sorta di impatto frontale. È necessario camminare, andare a cercare lo spazio e poi tornarci, annusare l’aria e ascoltare il movimento del proprio corpo. È necessario guardare ed essere guardati, anche se spesso non c’è nessuno: sono gli edifici stessi, le case svuotate, i terreni incolti, le rovine puntellate ad ospitare gli sguardi. Abbiamo incontrato viventi ma anche spettri, presenze ormai abituate le une alle altre, capaci di coabitare. Non con serenità, perché non c’è nulla di sereno nello spazio del terremoto. Un racconto di atmosfere, di sentimenti incontrati nell’aria, di corpi che si agitano e risuonano, di distruzione e ricostruzione. È la storia dei paesaggi e delle case, delle finestre affacciate al sole e delle rovine, dei cieli sopra il Gran Sasso e anche del nostro sguardo, che ha incrociato quello delle montagne.
Eredità, patrimonio: termini ampi che coprono una vasta gamma di significati, moltiplicando le sfumature passando da una cultura all’altra. Sono anche legati al contesto: persino in un singolo ambito culturale, possono mutare nel passaggio da una città all’altra. Prendiamo come caso L’Aquila: se il 2019 marca il decennale del devastante terremoto del 6 aprile, come potrebbe essere inteso il senso della sua eredità? In che modo si sovrappone con quanto questo significa in altre città italiane, che non hanno vissuto lo stesso trauma? In che modo tale eredità può essere resa produttiva, per immaginare e creare la futura urbanità dell’Aquila? Read More »