La città della cura

In primo luogo, è necessario osservare che, nei circa due mesi di lockdown tra marzo e maggio, la gran parte delle riflessioni e dei progetti dedicati a immaginare il futuro della città e dell’abitare dopo la pandemia sembrano aver sofferto di una certa deviazione epistemologica, forse prodotta dalla “paralisi emotiva” indotta dal panico, dall’incertezza del futuro. Ribadendo che, metodologicamente, è sempre meglio assumere una distanza critica rispetto all’oggetto dell’indagine, evitando di lavorarci da una posizione troppo embedded, ciò che appare eclatante è la debolezza di molte posizioni concettuali, quasi sempre prive di una riflessione coerente sui problemi da affrontare.

Solo due esempi: una proposta progettuale e una riflessione teorica. Un recentissimo progetto per un quartiere residenziale in un paese dell’Europa orientale, pubblicato da un noto studio di architettura italiano, ne declama la “resilienza al Covid” in virtù della disponibilità walking distance di tutti i servizi base, rendendolo quindi autosufficiente in caso di isolamento. Le confortanti immagini bucoliche che illustrano il progetto non nascondono il fatto che la dotazione di servizi di base per un quartiere speculativo di questa entità può difficilmente configurarsi come una novità, semmai una buona pratica. Inoltre, ci sembra poco sostanziata l’idea di porre rimedio ad un problema tutt’altro che lineare come il rischio biologico con il costruire nuovi edifici, che in quanto strumento per la trasformazione del territorio, persino in un contesto emergente, può considerarsi un “ferro vecchio”.

Nel campo delle riflessioni teoriche, possiamo citare – senza farne il nome – le riflessioni di un noto critico di architettura italiano che, prima ancora dell’inizio della “Fase 2”, proponeva soluzioni quali la moltiplicazione dei parchi nelle città, gli orti fra le case, ponti per collegare i balconi dei cittadini isolati in casa, con l’intento di creare nuove pratiche urbane da trasmettere alle future generazioni. Lo stesso critico chiosava interrogandosi se la quarantena non gli avesse forse dato alla testa, l’unica affermazione con la quale possiamo pienamente concordare.

In entrambi i casi, peraltro, ci sembra che l’urgenza di esprimere posizioni “a caldo” si inserisca perfettamente in quel fenomeno che la blogger archi-satirica Kate Wagner definisce Coronagrifting [1], espressione della PR-Architecture – ovvero architettura pensata primariamente per raccogliere consenso sui social network. Non pochi hanno sentenziato, con tono chiliastico, che la città contemporanea sarebbe finita con la pandemia, riconsolidando i margini ormai ampiamente sfumati fra spazio pubblico e privato, riconducendo la vita domestica entro l’esclusivo e controllabile recinto delle abitazioni, riportandoci indietro nel tempo di circa mezzo secolo, quando i movimenti di emancipazione femminile, per primi, hanno invocato e progressivamente ottenuto la liberazione della donna dalla scatola modernista dell’alloggio unifamiliare [2].

Al di là delle evidenti implicazioni etiche, tra utopie regressive e il tentativo di affrontare problemi nuovi con strumenti vecchi, abbiamo assistito ad un ampio processo di denigrazione della città contemporanea, improvvisamente diventata troppo satura, troppo densa di scambi che, in un periodo che richiede isolamento, si rivelano rischiosi. Ben più lucidamente, tuttavia, Ezio Micelli ha osservato come, a fronte delle prefigurazioni di «una possibile fuga dalle metropoli per ritrovare salute e qualità della vita in contesti di media e bassa densità […] appare poco credibile immaginare oggi la rinascita di luoghi trascurati per effetto di scelte eterodirette destinate a essere contingenti e temporanee»[3]. Secondo Micelli, in futuro le città medio-piccole dovranno trovare nuove vie per il loro sviluppo, ma questo certo non potrà avvenire a discapito delle metropoli, che, una volta cessata l’emergenza, torneranno a esercitare il loro consolidato predominio.

Che l’evento della pandemia e delle misure di sicurezza adottate a livello globale per contenerla lasceranno degli strascichi duraturi è alquanto ovvio, per quanto gli effetti si insinueranno nelle nostre vite in maniera poco visibile. In un denso saggio [4], il filosofo Paul B. Preciado legge in questa trasformazione il compimento della profezia foucaultiana, la transizione dalla dimensione biopolitica, ovvero l’organizzazione e gestione dei corpi per tramite di strutture fisiche – confini, barriere, città, architettura – ad una “necropolitica” di natura farmacologica, capace di operare attraverso «tecnologie biomolecolari che entrano nel corpo per via di micro-protesi e tecnologie di sorveglianza digitale ben più subdole e insidiose di qualunque cosa Gilles Deleuze potesse immaginare nella sua famosa previsione sulla società del controllo». Le forme che lo spazio della città assumerà a seguito di questa transizione giacciono ancora oltre il nostro orizzonte cognitivo.

Ma rimanendo nell’analogia clinica foucaultiana – quanto mai pertinente in questi tempi – possiamo forse affermare che, nell’architettura e nel progetto urbano, si sia confusa una patologia acuta con una cronica: in questo risiede la devianza cui accennavo nell’incipit. La pandemia, patologia acuta – per quanto grave sia stata – sta lentamente andando verso una risoluzione, e ci è servita a prefigurare gli scenari che verranno prodotti, in tempi non molto lontani, dalla malattia cronica di quasi tutte le società occidentali: la senescenza.  

Le proiezioni demografiche per i prossimi decenni indicano, per tutte le economie avanzate – e per l’Italia più che per le altre – un’ingente decrescita della popolazione: alla fine di questo secolo, gli abitanti del paese caleranno di un terzo rispetto a oggi, lambendo la soglia dei 40 milioni. Se l’anno 2100 può sembrare remoto, è invece molto prossimo lo scenario che si avrà fra un decennio, in cui questa tendenza sarà già fortemente avviata. Uno studente che si iscrive oggi nei nostri corsi di studio entrerà nel mondo professionale in una situazione di contrazione demografica che si assocerà, fisiologicamente, ad un’analoga decrescita economica.

È difficile prevedere quali saranno gli effetti di questa tendenza sulla distribuzione della densità insediativa italiana, se la riduzione sarà equilibrata, consentendo un consolidamento delle «relazioni tra le armature urbane più complesse e le aree interne» su cui questo seminario si sta interrogando, o se al contrario porterà ad uno spopolamento non più soltanto dei centri piccoli e piccolissimi, ma anche di quelli medi. Le politiche territoriali e infrastrutturali potranno forse orientare tale transizione, ma in un futuro che si preannuncia ancora più povero di risorse consistenti per gli investimenti pubblici è difficile fare previsioni attendibili. Possiamo tuttavia legittimamente aspettarci che la vitalità dei territori che saranno meno collegati ad una rete nazionale o internazionale è destinata a diminuire in maniera sensibile, e che sarà necessario abbandonare, una volta per tutte, il modello di sviluppo incrementale.

Senza che possa apparire come una prospettiva rinunciataria, bensì ragionando sull’enorme potenziale in termini di sostenibilità ambientale e di promozione di una migliore qualità della vita, possiamo immaginare questa transizione, metaforicamente, come quella di una coppia di anziani che lascia la grande casa dove sono cresciuti i figli per trasferirsi in un alloggio più piccolo e pratico. Una forma di cura, dunque, estesa a un intero territorio, quasi a pensare che, oggi, oltre ad insegnare ai nostri studenti a ben costruire, dobbiamo iniziare a insegnare loro le tecniche della riduzione e della demolizione.


Intervento al seminario “Rischio biologico e forme adattive dell’abitare. Teorie e pratiche della progettazione e della pianificazione al tempo del COVID-19”
Politecnico di Milano, DAStU, 17 giugno 2020

[1] K. Wagner, Coronagrifting: a design phenomenon, 29 maggio 2020, https://mcmansionhell.com/post/618938984050147328/coronagrifting-a-design-phenomenon

[2] A. Amann y Alcocer, F. Martella, Public house: the city folds into the space of the home, 4 giugno 2020, https://www.architectural-review.com/essays/public-house-the-city-folds-into-the-space-of-the-home/10047168.article?blocktitle=Latest-Inside-issue&contentID=25310

[3] E. Micelli, La metropoli aperta, inclusiva e creativa è sotto accusa, 21 maggio 2020, https://www.che-fare.com/micelli-metropoli-luogo-competenze-citta/

[4] P.B. Preciado, Learning from the virus, 1° Maggio 2020, https://www.artforum.com/print/202005/paul-b-preciado-82823

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